Per uscire dall’equivoco di spread e dintorni
a cura di Paolo de Zorzi, patrimonialista.
Stanco di leggere su ogni tipo di stampa, da quella generalista a quella specializzata, affermazioni assolutamente errate e forvianti, in relazione a questioni economiche e finanziarie, che non di rado denotano disinvolta ignoranza, non solo sugli aspetti concettuali, ma persino sul significato dei termini utilizzati in finanza, vorrei usare una delicatezza nei confronti dei nostri Clienti e Lettori, cercando di fare un po’ di chiarezza su talune questioni.
Volendo iniziare dai concetti più semplici, partirei dal significato di uno dei termini di maggiore uso (ed abuso) da parte dei nostri sistemi d’informazione: lo spread.
Che cosa significa, in senso stretto?
Banalmente, soltanto “differenziale”, termine che potrebbe essere quindi utilizzato in tantissimi casi, ma quello che normalmente viene riportato dalla stampa, e che di fatto ci interessa, afferisce alla differenza intercorrente tra la remunerazione del nostro B.T.P. decennale e quella del Bund tedesco di pari durata.
Detto ciò, già m’immagino i commenti dei miei Lettori. Molti, probabilmente, già lo sapevano, altri, magari, potrebbero obiettare che – non investendo denari sul nostro decennale – si tratta di una questione che non li riguarda, o non li interessa. Ma non è del tutto così, e vediamone i motivi.
Spread: facciamo chiarezza
Partiamo dalle questioni di natura macroeconomica.
Le dinamiche dello spread fotografano in maniera abbastanza puntuale come la Germania – Stato con prodotto interno lordo più del doppio del nostro e con un rapporto debito pubblico/PIL (compresi i Laender) poco sopra al 90% – per effetto dell’incremento dello spread, abbia, rispetto all’Italia, non tanto e non solo il vantaggio di remunerare, ad oggi, buona parte di tale debito circa 310 punti base meno dell’Italia (di fatto, per la Germania, le cose non cambiano più di tanto, in quanto già poco pagava prima, ora – magari – “rischia” di pagare ancora un po’ meno, ma non si tratta di una differenza apprezzabile!), quanto di poter utilizzare quel differenziale che, in cifre ed a regime, viene stimato da Banca d’Italia tra i 6 ed i 7 miliardi di euro all’anno, e che il nostro Paese sarà costretto a pagare sotto forma d’interessi – per continuare a sovvenzionare, ad esempio, investimenti infrastrutturali, che, per l’effetto moltiplicativo, comporteranno a favore della Germania ulteriori stabili incrementi di PIL, occupazione, attrazione di capitali per ulteriori investimenti e crescita virtuosa.
In sintesi, ciò già comporta per la Germania un’accelerazione delle proprie ragioni competitive, al di là di quelle già esistenti, rispetto all’Italia.
Continuando, se già in un’ottica internazionale risulta di tutta evidenza che un incremento di spread fa piovere sul bagnato, passando a dare uno sguardo alla situazione interna del nostro Paese, anche lì non si scherza, in quanto – partendo dal presupposto che il debito “pro capite” è chiaramente uguale per tutti i cittadini italiani – le variazioni dello spread colpiscono e colpiranno invece in maniera diversa le altrettanto diverse fasce della popolazione, a tutto favore di quelle più abbienti.
Se è infatti intuitivo che le fasce più agiate abbiano la possibilità – con nuovi investimenti – di approfittare del rialzo dei tassi, così ottenendo maggiori profitti, è altrettanto ovvio che chi non si trovi in quella situazione non possa partecipare alla festa.
Non solo, ma le classi sociali più deboli saranno anche quelle che maggiormente dovranno fare i conti con gli impatti negativi che sicuramente ci saranno sia sul credito bancario, prospetticamente in contrazione, sia sul costo dello stesso credito, al contrario, decisamente in crescita.
Spread: tutta colpa delle Banche?
Sono quindi cattive le Banche che si approfittano dello spread?
Neanche per sogno, in quanto le Banche (quelle italiane, di più, in verità) sono anzi tra i soggetti più pesantemente ed immediatamente colpiti dallo spread, in quanto fortissime detentrici di debito pubblico domestico (e per cifre stimate lo scorso ottobre, dalla solita Banca d’Italia, attorno ai 420 miliardi).
Il rialzo dei tassi, con la coerente riduzione dei valori che lo accompagna, è causa quindi di importanti perdite sui loro conti economici, ancora traballanti a fronte dei lunghi e costosi processi di ristrutturazione che sicuramente hanno consentito al settore di uscire dalla profonda crisi che lo aveva colpito, ma non senza creare forti dispiaceri (e perdite) a tutte le nostre Istituzioni finanziarie ed ai rispettivi azionisti.
Ora, più perdite significano meno capitale, e meno capitale significa diminuzione, per il sistema bancario, della capacità di effettuare quegli accantonamenti a fronte di attività a rischio – e l’erogazione del credito è tra queste – che sia i regolamenti internazionali (a cui il sistema bancario è soggetto) che gli ovvi motivi da carattere prudenziale impongono alle Banche. Altrettanto ovvio che, tanto più il credito diminuirà, tanto più correrà il rischio di diventare più caro per famiglie ed Imprese, ed – anche in questo ambito – si assisterà, come si alludeva prima, ad un’ulteriore differenza d’impatto sulle diverse fasce della popolazione, in quanto quelle abbienti potranno comunque e sempre far valere maggiori capacità negoziali, rispetto a quelle più deboli, a cui banalmente – le peggiori condizioni – non resterà che subirle.
E se i miei lettori si stessero chiedendo se, comunque, a muovere lo spread, non fossero magari la politica, una qualche sorta di “grande Vecchio”, o le solite “manine”, potrei con massima tranquillità dare loro una risposta negativa.
Lo spread, infatti, è solo una sorta di termometro, che misura la nostra febbre finanziaria, causata dall’entità degli spostamenti dei capitali degli Investitori Istituzionali, che possono essere in entrata o – come in questo caso – in uscita dal nostro Paese.
E gli Investitori Istituzionali, … son quelli i “biechi e beceri speculatori”?
Neanche un po’! In massima parte, si tratta di fondi pensione e fondi d’investimento, che – nell’interesse dei propri sottoscrittori (siano essi i dipendenti degli uffici postali di Rotterdam, o gli agenti di commercio dell’Arkansas) – “entrano ed escono dai vari Paesi”, o più correttamente vi investono – o vi vanno a disinvestire ciò che in precedenza avevano acquistato – in funzione non solo della redditività prospettica degli investimenti, ma anche in funzione della credibilità dei vari “Sistema-Paese”, della sostenibilità dei relativi modelli di sviluppo, della stabilità politica e dell’efficienza amministrativa.
Quando queste componenti vengono a mancare, come spiegato poc’anzi, i fondi … lasciano, banalmente vendendo quello che in precedenza avevano acquistato, fuggendo verso lidi più sicuri. Così facendo, ora hanno venduto i BTP (facendone scendere i prezzi, ed alzare i rendimenti), ed, in parte, ne hanno convertito il controvalore in Bund, che – specularmente – ha visto i propri prezzi salire, così provocando una contestuale discesa dei rendimenti.
Occhio allo spread, comunque, e – vista l’attuale situazione politica – incrociamo le dita.